Il silenzio dell’arte. Addio a Marco Grassi, maestro del restauro
Alcune vite scorrono silenziose accanto ai momenti decisivi della storia dell’arte, senza mai cercare il centro della scena: il loro unico scopo è custodire, senza apparire, è la storia di Marco Grassi.
Ho appreso con emozione, leggendo un intenso tributo firmato da Adam Nossiter sul New York Times, della scomparsa di uno degli ultimi veri grandi maestri dell’arte del restauro.
Nel suo studio di New York, nel cuore discreto dell’Upper East Side, Grassi lavorava come un medico dell’anima antica: tra cornici, tele appoggiate a terra, un microscopio sul tavolo e quell’odore di tempo che sa di resina e carta vecchia.
Accoglieva i visitatori con un espresso preparato con cura, indossando un grembiule blu sopra l’eleganza naturale del suo tweed. Era un gesto semplice, quasi un rito, che raccontava più di molte parole il rispetto che nutriva per l’arte e per chi ne condivideva la passione.
Figlio di antiquari fiorentini, cresciuto fra i capolavori e i racconti di Joseph Duveen e Bernard Berenson, Marco Grassi aveva scelto la via più difficile: quella della discrezione. Non un mercante, non un collezionista, ma un servitore dell’arte, un interprete umile e sapiente, raffinato e di rara cultura.
Diceva che “è il quadro che ti dice cosa fare” e in questa frase, così semplice e così alta, si ritrova tutta la sua filosofia: ascoltare prima di agire, capire prima di toccare.
Dagli Uffizi al lago di Lugano, dalle sale del Metropolitan ai grandi collezionisti internazionali, Marco Grassi ha lavorato con alcuni dei più straordinari capolavori della storia dell’arte, sempre con la consapevolezza che il tempo è il vero autore delle opere che ci incantano.
Tra i restauri che più amava ricordare, c’era una Crocifissione di Ugolino di Nerio, delicatissima e struggente, oggi parte della collezione Thyssen-Bornemisza di Madrid: un’opera che, grazie alla sua mano sapiente, continua a parlare con la voce limpida dei secoli.
Mai protagonista, sempre presenza viva e silenziosa. Il restauro, per lui, era una forma di amore filologico, una fedeltà a quel passato fragile che ancora oggi parla, ma solo se sappiamo fermarci ad ascoltare.
Con la sua scomparsa perdiamo un restauratore eccellente, ma soprattutto un modo di intendere l’arte come atto di rispetto, di pazienza, di cura. Un’arte che oggi, più che mai, ci insegna quanto sia prezioso il silenzio.
Alberto Moioli
